“Le difficoltà (nel coltivare) derivano dal cercare di seguire le indicazioni di qualcun altro, obbedendo alle regole invece di usare il proprio buon senso” (“Gardening Without Work”, Ruth Stout, 1884-1980, The Devin-Adair Company, 1961; traduzione italiana: “L’Orto Senza Fatica” a cura di Gian Carlo Cappello, 2021).
“Lo scopo vero dell’agricoltura non è quello di far crescere i raccolti, ma è la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani” (“Shizen noho wara ippon no kakumei”, Masanobu Fukuoka, 1913-2008, Hakujusha, 1975; traduzione italiana: “La rivoluzione del Filo di Paglia”, L.E.F., 1984).
Cosa è andato storto a un certo punto nella storia dell’umanità, tanto da sentire il bisogno di sottrarsi alle leggi perfette e imperscrutabili della Natura per sostituirle con quelle approssimative, troppo umane, della scienza?
Etimologicamente la parola “agronomia” significa “legge, regolamentazione del campo”. Sarebbe stato bello se il riferimento alla legge e alle regole fosse stato a quelle della Natura e non della scienza, ma così non è. Fin dalla sua origine etimologica l’agronomia è la disciplina scientifica che studia, regolamenta e rende applicabile l’interferire umano nei campi, a dispetto delle leggi della Natura produttrice di cibo. E’ il risultato di un umanesimo rozzamente travisato che mette al centro delle proprie attenzioni l’Uomo come entità distaccata dalla Natura. A mio parere l’agronomia dovrebbe essere invece una disciplina non scientifica, ma umanistica nel senso nobile del termine, forse la più nobile fra tutte; dovrebbe cioè stimolare in noi il desiderio di compenetrarci senza interferire non solo nella “Natura delle cose”, ma anche… nelle cose della Natura, parafrasando Publio Virgilio Marone primo ispiratore degli umanisti a venire. Questo è il saggio umanesimo che riceviamo spinto sino ai confini estremi della dimensione umana come eredi spirituali di Francesco Petrarca Pater Patriae.
Al contrario, la scienza nozionistica, riduzionista e materialista imposta dal Potere per i propri interessi di dominio e di lucro non è la vera conoscenza, non è l’elevato livello spirituale di cui siamo capaci. Solo lasciandoci alle spalle l’agronomia potranno risorgere dall’odierno orizzonte desolato terre coltivate nelle quali riconoscere la nostra anima vera e naturale.
Oggigiorno l’arma più efficace di cui disponiamo contro l’abbrutimento della Vita voluto dall’oppressore non è più la spada, ma una consapevolezza individuale a tutto raggio che sappia diventare collettiva. Niccolò Machiavelli riporta nel “De Principatibus” (1532), potente libello dove finalmente il Re è nudo, versi del Petrarca più attuali che mai, capaci ancor oggi di risvegliare nei lettori una dignità corale:
Vertù contra furore
prenderà l’arme, et fia ‘l combatter corto:
ché l’antiquo valore
ne gli italici cor’ non è anchor morto.
Da libero professionista agrotecnico ho consultato per decenni i manuali di agronomia, i decreti ministeriali, le pubblicazioni scientifiche dei centri di ricerca (con anche un’esperienza di due anni dal 1980 come ricercatore presso il settore concimi chimici dell’AssorENI), ma guardandomi attorno vedevo coltivazioni soggette a trattamenti fitosanitari continui, a regimi irrigui scandalosi, a diserbi sempre più pesanti, a modifiche genetiche e tutto questo solo perché le piante coltivate in monocolture potessero arrivare forzatamente al termine del proprio ciclo vitale. Infatti se poni un seme nella terra lavorata non vi è speranza che possa germinare, crescere e fruttificare se non con i continui apporti di acqua e concimi, che faranno della pianta un essere cresciuto secondo parametri diversi da quelli della crescita naturale; una pianta apparentemente rigogliosa, ma debole e indifesa di fronte a forme di vita che verranno considerate agenti patogeni da combattere con sostanze velenose. Chi invece trae vantaggio dall’alterazione del terreno sono le erbe pioniere, forti e selvatiche, che dovranno essere contrastate con potenti diserbanti.
Vedo ancor oggi macchinari agricoli titanici devastare i campi, mezzi meccanici i cui costi di acquisto e di mantenimento sono resi possibili solo dall’immissione di finanziamenti “pubblici” nel circuito aziendale, dove “pubblici” significa che i soldi prelevati a noi dallo Stato con le tasse transitano non indenni dalle tasche dei politici e finiscono nei conti bancari off-shore degli industriali produttori di macchinari e di sostanze chimiche per l’agricoltura. Macchinari mostruosi il cui costo oltre a gravare sui nostri portafogli viene scaricato sull’ambiente col solo scopo di controllare i prezzi dei prodotti dell’agricoltura industriale, inducendo una bassa qualità alimentare responsabile della debolezza e delle malattie dei consumatori.
L’agronomia fornisce all’agricoltura i mezzi scientifici e tecnologici per coltivare piante ospedalizzate dalle quali aspettarsi cibo scadente, oltretutto prodotto in quantità ben oltre le reali necessità, eccedenze poi distrutte a spese nostre e dell’ambiente per mantenere sotto controllo i prezzi di mercato. Finanziando questo scempio lo Stato in mano ai politicanti ci ripaga per aver versato le tasse nelle sue casse sfondate dalla corruzione.
Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari,
ma salviamo il nostro corpo e la nostra anima dal Sistema sùccubo del Capitale.
Questo è il contesto nel quale si collocano gli obiettivi che si pone l’agronomia, il che fa comprendere i risultati che ha dimostrato di saper ottenere. Come il ruolo falsificatore dei pubblicitari è di convincere i consumatori della buona qualità dei prodotti agricoli industriali, così il ruolo dei tecnici agrari è di convincere i contadini che non ci sia altra possibilità al di fuori del compromesso: inquinare per produrre. L’agronomia insegna come distruggere i terreni con le lavorazioni e le addizioni di sostanze intollerabili e contemporaneamente indica come renderli di nuovo produttivi con le stesse pratiche. Schizofrenia, ambito di competenza degli psicologi più che per un agrotecnico pentito come me.
Spacciandole per dati di fatto solo da ratificare, le leggi derivate dal recepimento degli enunciati della scienza agricola ci impongono codici di comportamento in realtà arbitrari, contrari ai nostri interessi e favorevoli ai potentati che le ispirano. Ecco un esempio delle armi messe in campo dal potere politico-economico: nella Gazzetta Ufficiale pubblicata il 21 Ottobre 1999 troviamo un Decreto Ministeriale il cui titolo recita “Approvazione dei Metodi Ufficiali di Analisi Chimica del Suolo”. La finalità di questo decreto è di unificare su tutto il territorio italiano le modalità di prelievo e di analisi dei terreni, allo scopo di standardizzare le procedure secondo le indicazioni del “Comitato Tecnico Scientifico per l’Osservatorio Pedologico Nazionale e per la Qualità del Suolo”, viste le conferenze sull’ambiente svoltesi negli anni precedenti in varie parti del mondo. Quindi la standardizzazione voluta dalle lobbies agroindustriali viene con questo decreto formalizzata dall’Italia, ma l’intento si rivela comune ai governi di tutti i Paesi convenuti nelle rarefatte sedi di Rio de Janeiro (1992) e di Cork (1996).
Lo scopo delle analisi pedologiche descritte nel D.M. è di verificare le eventuali carenze minerali del suolo secondo tabelle standard, sulla base delle quali si dovrà decidere quale sia l’azione da compiere per portare i terreni allo stato considerato ottimale, lì definito anche… fertilità. Tradotto in soldoni, se manca il calcio ne dovremo acquistare dalle industrie produttrici e spargerne, con appositi macchinari sempre di loro produzione, un quantitativo tale da raggiungere il livello ritenuto necessario per la crescita delle piante. E questo vale per l’integrazione di tutte le altre componenti del suolo agricolo rilevate come carenti in sede di analisi secondo i dati standard. L’equivoco di base sul quale si fondano questi dettami è dare per scontato che la fertilità sia la mera somma delle percentuali di minerali nel terreno. In realtà la fertilità non può esistere senza energia vitale. Anche il nostro corpo è un agglomerato di minerali, ma lo è altresì da morto: ciò che aggiunge la creatività e la dinamicità nelle quali ci riconosciamo è il quid di energia chiamato Vita. Nelle analisi dei terreni agricoli viene rilevata la presenza di minerali e di residui organici, ma non dell’humus ricettore, custode e dispensatore dell’energia vitale che anima se stesso e la materia.
La mia visione è che l’humus sia il luogo nel quale si generano e custodiscono energia e mezzi sufficienti per disaggregare la materia organica morta e i minerali e per riaggregarli in forma organica viva: il luogo celato dalla Natura ai nostri occhi, deputato alla risurrezione della Vita.
Anche se molto semplificata e sintetica questa mia descrizione dell’humus e già oltre la sua materialità e si distacca per scelta dagli enunciati della scienza agronomica, ampliandone il respiro.
Ho nella mia biblioteca due copie della bibbia dell’agronomia: il Manuale dell’Agronomo, che fu stampato per la prima volta in Italia nel 1941 come compendio delle esperienze agricole precedenti. Una delle mie due copie è molto vissuta perché risale al 1976 (è la V edizione, 3.237 pagine) e fu acquistata all’ultimo anno di scuola agraria; l’altra è una versione più attuale, edita nel 2018 (è la VI edizione, dove non viene più riportato il numero totale della ingente mole di pagine, le quali vengono invece suddivise in sezioni e sottosezioni). Quest’ultima copia l’ho voluta acquistare -malgrado il costo non trascurabile- giusto per capire quali siano stati i cambiamenti della scienza agronomica ufficiale in questo mezzo secolo.
A parte i riferimenti alle nuove tecnologie agrarie intervenute nel frattempo e, per mostrarsi politically correct, a qualche escursione nei temi ambientali, concettualmente nella sostanza del testo non è cambiato nulla. Nell’edizione del 1976 le pagine dedicate all’humus sono solo tre (non viene menzionato altrove nel testo) e la descrizione è riduzionista e materialista, in coerenza con la trattazione di tutti gli altri argomenti contenuti nel Manuale. Nell’edizione del 2018 -che è più imponente nelle dimensioni malgrado l’uso della stessa grammatura di carta velina e più o meno la stessa caratura dei caratteri- nel mare magnum dei tecnicismi trovo solo sette pagine dedicate genericamente alla microbiologia del suolo e, audite populi, la parola humus non appare più. E’ come se dalla Bibbia venisse cancellata la parola Jahvè, riportata 6.000 volte nel testo. L’unica surreale motivazione che riesco a darmi di tale blasfemia è che agli agronomi e agli altri specialisti estensori del “Manuale” non essendoci più humus nei campi agricoli possa essere sembrato inutile perdere tempo a trattarne. In questo mio breve scritto sull’agronomia lo menziono una ventina di volte.
L’equilibrio imperscrutabile della Natura, sempre uguale a sé stesso eppure in continua dinamica trasformazione, ha consentito per centinaia di milioni di anni la massima rigogliosità della vita in tutte le sue espressioni senza che l’essere umano ci mettesse lo zampino, coinvolgendolo appieno nei primordi del suo apparire sulla scena di quella totalizzante armonia. La scienza agricola si applica invece a un modello statico e ripetitivo alieno alla Natura, riducendo quella perfetta complessità in dinamico divenire a pochi aridi dati, col risultato di lasciarsi alle spalle una terra e un’umanità altrettanto aride. L’impoverimento dei terreni agricoli è sotto gli occhi dei coltivatori e lo stato di apprensione che esso suscita li induce a sottoporsi al controllo dell’agronomia salvatrice, in una circolarità di causa-effetto e di lavoro auto-indotto che dobbiamo assolutamente interrompere introducendo una nuova agricoltura affrancata dall’agronomia.
Spesso mi viene chiesto “devo analizzare il mio terreno per apportare ciò che le analisi rilevano come mancante?”. La mia risposta al quesito è un chiaro no. Anzi, il fatto stesso di sentire la necessità di affidare la conoscenza della fertilità del proprio campo alle indagini chimico-fisiche di laboratorio induce il coltivatore in quello stato di apprensione che lo pone nella discrezionalità degli esperti, degli specialisti, emarginandolo dalla comprensione della realtà naturale e inducendolo ad agire contrariamente a quanto saggiamente indicato dalla filosofia del “non fare”, dove a indicare le poche cose da “fare” è solo la nostra vera innata sapienza, quella che si esprime a partire dalla contemplazione attiva della Natura, propria degli esseri viventi non corrotti dalla scienza e liberi da essa, quali sono gli animali e gli alberi nostri esemplari compagni di viaggio su questa Terra illuminata dal Sole e resa fertile dall’humus.
A chi mi chiede se non mi senta radicale ed estremista rispondo invece sì: vado alle radici dei problemi senza fare sconti a nessuno e porto le mie considerazioni alle conseguenze estreme, perché questo è per me il vero amor di verità.
Le radici delle deficienze implicite nella scienza agronomica affondano nella preistoria, presumibilmente nel neolitico, quando col consolidarsi dell’agricoltura e dell’allevamento i nostri antenati sancirono la devianza umana intraprendendo il cammino del predominio sulla Natura, che coincise e si configurò con l’avvio della distruzione dell’humus. Secondo gli studiosi, in questo nuovo contesto evolutivo si svilupparono contemporaneamente il pensiero razionale, la proprietà privata patriarcale, i clan familiari, l’appropriazione ereditaria della terra non più bene comune (sorgente di una conflittualità sfociata nella regola storica della guerra continua), il condizionamento culturale del parto volto ad ottenere individui aggressivi, funzionali alla nuova mentalità di possesso. Per sopravvivere in un sistema cosiffatto la nostra stessa genetica si è conformata generazione dopo generazione alla necessità individuale di dominare o di sottomettersi socialmente.
Immagino che la possibilità di alterare la Natura in termini agricolo-pastorali possa aver rappresentato agli occhi dei nostri antenati la comodità dell’approvvigionamento di cibo “sotto casa” a fronte dei disagi della transumanza frugivora e dell’aleatorietà della caccia. L’agricoltura ci affrancava dalla vita nomade, l’allevamento ci dispensava dal cimentarsi nella caccia di animali più forti e veloci di noi, tanto da veder spesso rovesciati i ruoli. La soluzione fu sostituire la vegetazione spontanea con piante coltivate e costruire recinti nei quali tenere a portata di machete la carne. E qui sarà utile ricordare come la parola “capitalismo”, da abbinare inevitabilmente a questa civiltà fondata sull’appropriazione privata del bene comune, abbia origine dal caput pecoris, il capo di bestiame della pastorizia e degli allevamenti. Avremmo potuto scegliere una strada differente, ma in mancanza dell’attuale consapevolezza non credo si sia trattato di una scelta quanto piuttosto di una, oggi discutibile, strategia di sopravvivenza nella quale siamo scivolati dentro, inedita in quel panorama ancora naturale.
A differenza degli altri animali, arginati nello sviluppo delle colonie dai fattori naturali di contenimento demografico, nell’essere umano l’accrescimento sempre maggiore della razionalità, stimolata dallo stress della difesa delle proprietà accaparrate dai più forti, crudeli e determinati ha portato al crescente distacco dalle leggi di Natura sino ad affrancarsi del tutto dai limiti della proliferazione a scapito della limitatezza delle risorse ambientali.
Vi è a mio parere una forte correlazione tra ciò che eravamo ai nostri primordi -quando la terra era ricca di humus– e come siamo ridotti oggi dopo la millenaria distruzione dell’humus iniziata con l’agricoltura. Da quando la strategia di base per la sopravvivenza si è consolidata col progressivo predominio della razza umana sull’ambiente, il livello dello scontro con la Natura è man mano aumentato fino ad arrivare alle stelle (nel senso che secondo gli agronomi andremo presto a coltivare su Marte). Se nei millenni a seguire dalle origini dell’agricoltura il nostro operato distruttivo fu lento in ragione dei mezzi ancora limitati, con il prorompere della ricerca tecnologica agricolo-militare di epoca romana si verificò un rapido incremento della distruzione ambientale, che alterò il fluire lento della vita agricola come un vuoto improvviso conferisce allo scorrere dell’acqua l’accelerazione di una cascata. La creazione della maggior parte dei deserti, iniziata lentamente millenni prima in Mesopotamia, avvenne da allora in pochi secoli e prosegue tutt’oggi con una progressione esponenziale. Quel momento di cambio di velocità distruttiva corrisponde all’organizzazione sistematica delle scienze agronomiche, che ha costretto l’agricoltura negli ingranaggi di leggi astratte.
Dall’epoca romana la tecnologia militare e quella agricola sono diventate indistinguibili, scambievoli e procedono tuttora di pari passo: dai carri armati ai trattori, dalla nitroglicerina ai nitrati, dal napalm ai diserbanti, dalla guerra biologica agli Organismi Geneticamente Modificati (OGM), dalle reti di comunicazione militare all’automazione eterodiretta delle attività agricole “di precisione”, solo per fare alcuni esempi. La definizione “agricoltura tecnologica di precisione”, oggi tanto in voga, è a mio parere più congrua per una fabbrica di bulloni che non per un luogo deputato alla vita qual è, o perlomeno dovrebbe essere, un campo coltivato per darci oggi il nostro pane quotidiano.
Nell’immaginario collettivo la percezione positiva dei paesaggi coltivati, come può essere la terra nuda dei campi arati o le distese di grano a perdita d’occhio, è frutto della stessa cultura che ci porta a vedere aspetti positivi nella guerra o nell’inquadramento imposto dall’alto alla nostra vita.
Intaccando lo strato di humus naturale abbiamo avviato la degenerazione dell’umanità. L’agronomia è responsabile di aver fornito all’agricoltura le pezze d’appoggio scientifiche per acuire la frattura del nostro rapporto con Madre Natura e deve per questo assumersi la sua parte di responsabilità nell’olocausto di tutte le vite umane spezzate negli ultimi millenni dalle carestie e dalle malattie, oltre che nello sterminio altrettanto penoso di miliardi di animali allevati, di bestie selvatiche sterminate e di alberi abbattuti o bruciati per far spazio all’agricoltura prima familiare, poi latifondista e oggi industriale.
Se noi, come ogni essere vivente, siamo figli dell’humus generatore di nuova vita da ciò che muore, piantare la lama di un aratro o di una vanga nella terra è come conficcarle nel nostro stesso corpo e il frutto di quella terra sventrata nascerà morto e ucciderà qualcosa in noi invece di accrescere la nostra forza, come è stata annichilita la forza della terra. Somministrare veleni nel campo è come avvelenare noi stessi. Le alterazioni nel genoma indotte negli OGM non potrà non indurre l’alterazione del nostro stesso genoma. Gli esseri viventi sotterranei uccisi dalle arature, gli animali macellati negli allevamenti, le vittime umane militari e civili causate dalle conseguenze dell’agricoltura capitalista reclamano una nuova Norimberga. Sul banco degli imputati: l’agronomia, la scienza che interferendo con i processi naturali di formazione dell’humus sino ad annichilirli causa ampie ripercussioni ambientali trascinando con sé da secoli -a partire dalla rovina dei campi agricoli ai quali si applica- tutta la vita del Pianeta.
Imploro i giovani e volenterosi agronomi neolaureati affinché abbandonino ogni velleità di controllo tecnico-scientifico sui processi naturali, per rivolgere la propria appassionata attenzione alla rispondenza, anche in agricoltura, tra il proprio più intimo sentire e la vita che pulsa attorno. Un’importante avvertenza, soprattutto per i giovani, è di non cadere nel riformismo “biologico” e “alternativo”, che è intriso di tecnologie, concimi, antiparassitari (sdoganati come “presidi sanitari”), diserbanti “verdi”, di “soft tilling”, di “Green Economy”, di ingegneria del paesaggio e altre amenità simili che nella sostanza non cambiano nulla. La situazione attuale non ci permette di procrastinare la scelta di una coltivazione che vada in direzione opposta all’interventismo, sotto qualsiasi veste “bio” o “green” esso si nasconda. Per gli addetti all’agricoltura è il momento di mostrarsi rivoluzionari, non riformisti.
Dopo lo stravolgimento dell’Arcadia, sotto il controllo di un Potere sempre più generalizzato, centralizzato e pervasivo, tutto -non solo l’arte del coltivare- è degenerato raggirando le nostre reali necessità di base: il prendersi cura di sé è diventato industria farmaceutica generatrice di malattie per “fidelizzarci” quali clienti-pazienti; l’apprendimento è diventato obbligo scolastico per marchiare a fuoco il cervello dei bambini con i modelli del Sistema; la comunicazione empatica tra viventi è diventata isolamento causato dall’intermediazione di dispositivi elettronici; l’utilità e l’unicità degli oggetti dell’artigianato sono diventate obsolescenza programmata dal consumismo negli anonimi prodotti seriali dell’industria; l’amore che genera la famiglia è diventato costrizione sottoposta alle leggi; il parto fisiologico è diventato una patologia da medicalizzare; la sensualità è stata scaraventata nel baratro della pornografia; la libertà di movimento è diventata imbottigliamento nel traffico automobilistico; la protezione che cerchiamo nell’abitare è diventata carcerazione preventiva a vita in edifici anonimi ammassati l’uno sull’altro; il tempo al di fuori del proprio lavoro è diventato oggetto di accordi sindacati/padroni e la sua qualità dipende dalla disponibilità economica. Il divertimento non diverge dal grigiore della quotidianità e l’intrattenimento ti trattiene davanti a uno schermo che vomita pubblicità e detta comportamenti conformisti. Il lavoro, la più nobile espressione della creatività individuale a servizio della comunità, è diventato un obbligo indotto dalla mera sopravvivenza. La nostra naturale inclinazione alla trascendenza si ritrova reificata nei codici religiosi stilati da chi millanta il proprio rapporto preferenziale con le divinità.
E così via, ma queste sono tutte conseguenze dell’attacco sferrato all’humus dall’agricoltura “agronomicizzata”. Forse è per questo motivo che l’agricoltura, con tutto l’apparato scientifico che le è proprio, viene oggi definita “settore primario” di questa Civiltà a noi così ostile: perché rappresenta l’attacco primario alla nostra umanità.
Nel Paradiso Terrestre non vi era agricoltura e la punizione di diventare quel che siamo adesso è conseguenza dall’aver preso la via di una conoscenza non più, come diremmo oggi, olistica, ma ottusamente limitata all’apparente piccolo vantaggio materiale immediato. Adamo è l’unica figura mitologica che invece di venir promossa a livelli più vicini alla divinità (al cospetto di un albero, come spesso accade nei racconti mitologici) sia stata declassata da semi-divinità al “tu uomo lavorerai con fatica”. Chi ben comincia..!
Alterando l’humus l’agricoltura figlia del peccato della (cono)scienza ha interrotto lo scambio ciclico e perenne tra il minerale che diventa vita e la vita che ritorna minerale. E da qui inizia l’annullamento in atto della vita stessa sul Pianeta e la nostra condizione di mortali impauriti dalla coscienza della propria morte a venire.
Il ritorno al Paradiso Terrestre primigenio, riconducibile a una primitività ideale in armonia con forze naturali che sfuggono alla nostra comprensione e quindi al nostro controllo, richiede il superamento della scienza agronomica in particolare e della scienza in generale così come oggi si sono conformate sulla base di una commistione di arroganza, superficialità filosofica e interessi economici a noi contrari, pratiche per le quali ogni generazione di scienziati e ricercatori studia e lavora per rimediare ai danni causati dalla generazione precedente, scovando rimedi ancor peggiori per noi e più redditizi per l’Establishment.
Se è vero che nella dimensione della Natura riscontriamo la nostra unica realtà, allora la scienza e ciò che è diventato il raziocinio si svelano come pura alienazione. Scrollarci di dosso l’agricoltura e la sua scienza significa far rientrare nella nostra umanità la divinità della Natura, avulsa dalla fatica del vivere e dalla paura della morte. Solo in una nuova Civiltà diversa da quella attuale non vi sarà nulla di contrario alla realizzazione di questi assunti.
La nuova agricoltura consiste proprio nel superamento delle pratiche studiate dall’agronomia, quindi nell’annullamento dell’agronomia stessa.
La Coltivazione Elementare ha come fulcro il riconoscimento del ruolo centrale dell’humus nel ciclo della vita.
Per questo motivo in Coltivazione Elementare non si lavora mai il terreno, neppure in modo superficiale e neanche all’inizio della coltivazione; non viene alterato il profilo del suolo mediante aiuole rialzate, bancali o altre sagomature; non si utilizzano fertilizzanti, antiparassitari, ammendanti, diserbanti né altri preparati chimici, organici, omeopatici; non vengono praticate rotazioni colturali, sovesci, semine in copertura, consociazioni varietali, compostaggio, progettazione degli spazi, calendarizzazioni; non si utilizzano impianti irrigui neanche in superfici ampie; non si usano animali né prodotti da essi derivati; non si usano tecnologie e macchinari prodotti dall’industria; non vengono assunte posizioni dogmatiche nella scelta delle sementi di varietà nuove o antiche, prediligendo semi auto-prodotti; non viene preso neppure in considerazione l’uso di OGM; non si ritiene utile alcun riconoscimento dal mondo scientifico; non si eseguono analisi al terreno.
Ecco invece cosa si fa: si considera il naturale equilibrio del contesto di coltivazione condizione essenziale per la crescita sana delle piante; si valorizza l’erba spontanea viva che cresce tra le piante coltivate; si mantiene l’orto pacciamato con fieno per tutto l’anno; si pianta e si semina ordinatamente formando “Nidi” o filari nella pacciamatura, senza mescolare le varietà; si considerano le cosiddette “malattie” come processi naturali utili a mantenere in sano equilibrio le coltivazioni; si promuovono la crescita interiore, l’apprendimento, l’intuito, il sentire, la saggezza innata, la creatività, la lungimiranza, il buon senso, l’autodisciplina e l’esperienza; si sostiene l’autosufficienza individuale, delle famiglie e delle comunità per il superamento dell’economia capitalista (anche se nascosta dietro altre facciate ideologiche).
La Coltivazione Elementare pur non tenendo conto di alcuno dei dettami delle scienze agronomiche e delle loro applicazioni ottiene raccolti affidabili, abbondanti, sani, gustosi e nutrienti. Ritengo, in definitiva, che la vera rivoluzione per tornare ad essere semplicemente umani consista nel dare all’humus la possibilità di ricrearsi laddove è stato distrutto, evitando l’intromissione scientifica e tecnologica dell’agronomia nelle Cose della Natura.
Testo e foto di Gian Carlo Cappello e Mara Lilith Orlandi. ©Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione.